giovedì 26 maggio 2011

È pericoloso sporgersi








Danesi, tedeschi, olandesi viaggiavano seminudi con un solo pacchetto di crackers. Ricordo che all'altezza di Napoli ci chiedevano quanto mancasse per la Sicilia. Non credevano ai nostri gesti: "metà strada". Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, l'acqua e i panini di mia madre hanno salvato la vita a decine di europei. Ci andavamo ogni anno in Sicilia. Nel mese più sbagliato, ad agosto. Un caldo insopportabile. Ricordo che bagnavo le mie braccia filiformi e poi, come ali, fuori dal finestrino in corsa. Ne pas se pencher au dehors, Nicht Hinauslehnen, bla, bla, bla... quaranta gradi all'ombra ma la pelle sembrava gelarsi. Ricordo la cuccetta. Pendevo ad altezze siderali o schiacciato da grandi sconosciuti. Immerso in un buio squarciato da mille luci impazzite, bianche, gialle, arancioni. Ricordo che era bello lasciarsi scuotere dal treno che sferragliava e attraversava i miei paesi, le mie montagne, i miei campi, i miei fiumi. Sempre meno fiumi. Sempre più secchi. Ricordo la paura dei ladri la notte. Vaporizzatori di sonniferi, Scassinatori di porte scorrevoli, Corruttori di ferrovieri dello Stato. Il mitico arancino sul ponte della nave era l'ultimo atto di un viaggio epico che durava un giorno e mezzo. Ci volevano altre 2 ore per aggirare l'Etna. I miei nonni a San Giovanni Galermo stavano. A quei tempi, Galermo per me era una scritta su un muro di pietra tra i fichi d'india: "VOGLIAMO LA LUCE". Poi una curva e appariva l'agrumeto di nonno Mario. Un eden strappato alla sciara. Una volta entrati, non ne uscivamo più. La Sicilia per me finiva lì.

Solo qualche volta si andava dalla zia a Vaccarizzo, un paesino di seconde case abusive, a sud di Catania. Ci sono tornato recentemente. Tutto è più piccolo di come lo ricordo. Tutto più bello, curato, condonato. Nelle stradine di accesso al mare, incredibili piante esotiche si piegano sane e pesanti su di me. Sbuco sulla spiaggia. Il vento africano che mi arriva in faccia è di un erotismo imbarazzante. Tocco coi piedi la sabbia. È sera. I "lillini" di Catania brillano in lontananza e mi bloccano la gola. Era quella la spiaggia dove una mattina si gonfiava al sole d'agosto il cadavere di una pecora. Era quella la spiaggia da dove mio cugino Mario - il più bello di tutti - partiva alla conquista di femmine. Era quella la spiaggia dove mio fratello Mario (ci chiamiamo tutti un po' Mario in famiglia) una notte cercava di prendere le lucine di Catania. Ho un anno meno di lui, ma riesco a vederlo a 2 anni che tende le sue manine all'orizzonte urlando: "lillini... lillini...".

È stata una frase di Edo a farmi ricordare. Facevo il padrino al battesimo di Anita. Alla fine della cerimonia, Edo si avvicina con un'aria più anziana del solito.

"Papi"
"M?"

"È vero che quando non ci sarà più il papà di Anita tu andrai da lei?"
"Si, io sono il padrino. Però il papà di Anita è più giovane e quindi..."
Disperato, taglia corto: "E quanto hai intenzione di stare?"

In quel momento si spalanca il cassetto di un ricordo precisissimo. Siamo a Vaccarizzo. Mio padre si alza e scruta l'orizzonte. Non sa nuotare ma non ne può più di stare lì con noi, su quella spiaggia, su quella Sicilia da cui un secolo fa è fuggito. Prende il materassino e va. Cinque minuti dopo scrutiamo l'orizzonte disperati. Mio padre è un piccolissimo puntino verso le acque territoriali libiche. In lacrime guardiamo la mamma. I suoi denti bianchi scintillano al sole mentre insulta col pensiero il marito in fuga.
Con una frase di Edo, in un secondo, io attraverso quasi quarant'anni di vita, quasi 2000 chilometri di terra. E capisco mio padre. È pericoloso sporgersi, ma che bello.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie per questa meraviglia. Passavo per segnalazione di un'anima sensibile ma fermarmi m'ha fatto bene. Ti seguirò. Grazie.

AT

Giangi ha detto...

grazie a te e all'anima sensibile che ti ha portato qui